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Perfezionismo. E un antidoto

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“Sono una persona piuttosto perfezionista”, capita spesso di sentire questa frase e noi stessi potremmo averlo detto di noi, sentendoci quasi fieri di avere questo difetto. Abbiamo un’ambigua ammirazione per il perfezionismo, tale da
 oscurarci del tutto il potenziale negativo che questo può avere sulle nostre vite e su quelle di chi ci sta intorno. Tendiamo a considerare il perfezionismo un simbolo di valore. Un tratto distintivo delle persone di successo. Ma questa in realtà è una convinzione spesso ingenua.

I perfezionisti, solitamente, sono delle persone scontente, inquiete, insoddisfatte, alla continua ricerca di una condizione ideale di felicità. Una condizione che, nella vita di tutti i giorni è impossibile raggiungere e che non è nemmeno auspicabile. Una vita perfetta, se mai fosse possibile averla, ci renderebbe degli alieni, delle persone con cui sarebbe difficile comunicare, delle fortezze vuote.
 Thomas Curran e Andrew Hill, studiosi di Psicologia della Personalità, hanno indagato a lungo questo tratto e ci mostrano come il perfezionismo si associ a un grande numero di disturbi mentali, dai disturbi d’ansia a quelli alimentari. E ci mettono in guardia sul fatto che questo tratto sia in aumento soprattutto nelle nuove generazioni, particolarmente nella forma del “perfezionismo socialmente indotto”.

Sempre più, infatti, la nostra vita è sotto lo sguardo degli altri, che immaginiamo giudicarci di continuo, come in un tribunale in cui noi siamo gli imputati. Il minimo errore può costarci caro, dal voto dell’esame universitario, alla foto sbagliata su Facebook, Instagram, Twitter. 
La società contemporanea ha guadagnato aspetti del tutto positivi, come la libertà di scelta. Queste però contribuiscono di continuo a porci in crisi con noi stessi “Chi sono? Chi dovrei essere? Che obiettivi dovrei avere nella mia vita?” La rigidità nel considerare questi aspetti così fondanti della nostra identità può portarci a ritenerci profondamente colpevoli di ogni minimo deragliamento da quelle che sono le aspettative su noi stessi. Questo ci porta ad infliggerci pene, spesso inconsapevoli e che riteniamo giuste, proprio alla luce del nostro sentirci perennemente sbagliati, inadeguati, non all’altezza.

Al posto di questo meccanismo, attraverso una maggiore flessibilità, potremmo invece sperare di diventare semplicemente migliori di come siamo, contemplando tutti quegli errori che fanno parte del miglioramento.
 Dovremmo però essere capaci di trattarci con indulgenza quando, umanamente, incappiamo nell’errore, quando ci capita di osservare quella nostra, instancabile e feroce ricerca di perfezione.
 Un modo, attraverso il quale possiamo allenarci ad una maggiore flessibilità verso noi stessi e ad abbracciare la nostra innata imperfezione, è quello di praticare la Self-Compassion. Abbandoniamo l’idea che volerci bene sia una roba da deboli e apriamoci alla possibilità di una vita imperfetta e meritevole di essere vissuta.

“Se ci sono molti “Sono repellente, sono terribile”, notatelo in qualche modo e forse si attenuerà un po’. Ditevi piuttosto “cosa sto sentendo? Forse ciò che sta accadendo non è che sono un fallimento, sto solo soffrendo. Sto solo soffrendo.” Pema Chöndrön

Pema Chödrön, Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio. 2016 Edizioni Il punto d’incontro

Thomas Curran, Our dangerous obsession with perfectionism is getting worse, Tedmed Novembre 2018

Ansia

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Gestire lo stress. Le nostre malsane convinzioni

É possibile gestire lo stress in modo migliore? Quali variabili influenzano la nostra reazione ad esso e come possiamo aiutarci a vivere questa esperienza in modo più sano?

gestire lo stress psicologa roma monteverdePotremmo definirla una forma di naturale immunità allo stress. L’approccio che alcuni di noi hanno e che tutti gli altri potrebbero apprendere, che si fonda sul vivere in modo sano l’esperienza dello stress.

Per gestire meglio lo stress  dovremmo provare a cambiare le nostre convinzioni su di esso. Pensare lo stress come un nemico dannoso per la nostra salute, infatti, ci predispone ad ammalarci di più e ci destina ad una morte precoce. Questo almeno è quello che alcuni ricercatori ci fanno notare.

Kelly McGonigal, psicologa della salute, ci spiega come questo possa accadere e come invece, accogliere l’esperienza dello stress nella sua interezza, senza giudicarla negativamente, possa aiutarci a comprendere che gli effetti dannosi dello stress sulla salute non sono affatto inevitabili.

Come sempre, la prospettiva da cui guardiamo le cose è ciò che conta e in quella prospettiva c’è il racconto che noi facciamo di quell’esperienza che viviamo.

 

MBSR – Protocollo per la riduzione dello stress basato sulla Mindfulness – Studio di Psicologia Gordiani

Mindfulness

Disturbi psicosomatici e funzionali

Dipendenza affettiva

Amare qualcuno è un sentimento gratificante, naturale e adattivo per la specie.

L’amore è, in tutte le sue forme, un sentimento che ci porta a creare uno spazio nella nostra vita per accogliere l’altro e donargli qualcosa di noi. Quando amiamo siamo felici e sembra che tutto il nostro organismo benefici di questo stato affettivo.

Molti comportamenti motivati dall’amore, infatti, come il rapporto sessuale e l’accudimento, permettono al nostro corpo, tra le altre cose, di produrre un ormone chiamato ossitocina, che sembra giocare un ruolo anti-infiammatorio e cardio-protettivo (Gutkowska, J., & Jankowski, M. (2012) oltre ad avere una funzione di neuromodulazione della trasmissione sinaptica centrale e di mediazione della plasticità neuronale (Mitre, M., Minder, J., Morina, E. X., Chao, M. V., & Froemke, R. C. (2018)

Finchè parliamo di amore, quindi, tutto bene.

Il problema si pone quando, invece di provare un sentimento sano e naturale, restiamo vittime di un meccanismo di dipendenza affettiva che ci porta  ad annullare noi stessi e a trovare senso solo nel riferimento ad un’altra persona.

Comunemente, nelle prime fasi dell’innamoramento, gli individui mostrano atteggiamenti simili a quelli dei soggetti dipendenti da droghe, gioco patologico, dipendenza da internet, etc. Uno degli aspetti che accomuna i due fenomeni è di avere un’attenzione focalizzata per l’oggetto del desiderio e un pensiero ossessivo per il raggiungimento dello scopo. Nelle prime fasi dell’innamoramento si pensa al proprio amato in maniera pervasiva, la mente corre a lui anche quando non c’è e non si vede l’ora di rivederlo di nuovo. Questa fase iniziale cambia progressivamente, spesso nelle storie che tendono a durare nel tempo, proprio in virtù della relazione che si crea fra i due innamorati e del cambiamento dei singoli all’interno dello scambio con l’altro.

Nella dipendenza affettiva l’atteggiamento di completa focalizzazione sull’altro continua anche oltre le prime fasi naturali dell’innamoramento. Questo interrompe il processo naturale della scoperta di sé e della persona che amiamo, per diventare meccanismo di gestione dell’angoscia ad uso personale del soggetto dipendente. L’altro amato non è più l’altro per ciò che è ma diventa strumento per regolare il proprio sentirsi. L’altro diventa indispensabile per “leggersi”.

Nella psicologia post-razionalista possiamo inquadrare molte esperienze tipiche delle dipendenze affettive sotto lo spettro della tendenza alla co-percezione (Arciero, G. (2002). Studi e dialoghi sull’identità personale. Torino: Bollati Boringhieri). “Co-percepirsi con l’altro” è quel fenomeno che accade quando, per accedere a me (a come mi sento, a cosa penso…) ho bisogno di un altro a cui riferirmi.

Facciamo un piccolo esempio. Poniamo che io sia a dieta perché voglio perdere qualche chilo di troppo. E poniamo che a pranzo con il mio ragazzo finisca per mangiare tutto il pane che c’è sulla tavola. A quel punto lui mi fa notare, in modo scherzoso, che forse ho un po’ esagerato. In quel momento rispondo semplicemente con un sorrisetto e gli do ragione ma subito dopo mi chiudo nel silenzio e comincio a pensare, pensare, pensare… “è stato proprio cattivo a farmi notare che ho mangiato troppo, non capisce mai quando dovrebbe essere carino con me, non perde mai l’occasione per farmi sentire una persona incapace, forse preferirebbe stare a tavola con una delle nostre amiche magre e sicure di sé…”e così via. Questi pensieri e il modo in cui mi fanno sentire potrebbero portare ad arrabbiarmi con lui successivamente o a rimanere chiusa nel mio silenzio mentre coltivo il mio rancore per lui. L’aspra critica, oltre la semplice frase che lui ha detto, la derivo da ciò che appositamente “metto nella testa di lui” per “leggermi” incapace, brutta, non attraente. Questo certo non  non mi aiuterà a portare avanti serenamente la mia dieta, anzi, non farà altro che spostare la responsabilità del mio comportamento e del mio modo di sentirmi su di lui.

Nella dipendenza affettiva questo meccanismo di co-percezione è pervasivo, costante. Finisco per non vedere più né me stesso, le mie difficoltà, le mie scelte, le mie responsabilità, né l’altro, per quello che è, oltre l’effetto che mi fa. Così finisco per sentirmi, in qualche modo, soltanto alla luce di come mi fa sentire l’altro (“mi fa sentire poco considerata, che non valgo nulla, che sono brutta, grassa, incapace).

Questo meccanismo di regolazione di sé attraverso l’altro può avere una storia in ognuno di noi. E può avere dei gradi.

Liberarsi dalla dipendenza, imparando a ri-appropriarsi del proprio modo di sentire e riprendendo su di sé la responsabilità delle proprie scelte, è un percorso che può richiedere un cambiamento sostanziale nella vita di chi, da tempo o da sempre, vive sé stesso solo alla luce di un altro. Ma di sicuro vale la pena provarci.

Lo spazio della solitudine

La solitudine è una condizione che tutti noi sperimentiamo, in alcuni momenti.
Non sempre però questa è una scelta e, non sempre, questa esperienza è vissuta pienamente.
Dice Karen Horney «Tutti coloro che prendono seriamente se stessi e la vita, vogliono stare soli, ogni tanto.
La nostra civiltà ci ha così coinvolti negli aspetti esteriori della vita, che poco ci rendiamo conto di questo bisogno…Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori, ed anzi, l’incapacità di una solitudine costruttiva è per se stessa un segno di nevrosi.
Il desiderio di star soli è un sintomo di distacco nevrotico soltanto quando l’associarsi alla gente richiede uno sforzo insopportabile, per evitare il quale la solitudine diviene l’unico mezzo valido» (Karen Horney  – I nostri conflitti interni).
Alcuni infatti scelgono la solitudine per rifugiarsi dal mondo esterno, dalle relazioni e dai rischi che esse portano inevitabilmente con sé, altri invece la subiscono come una condizione intollerabile, ansiogena.
Gestire la solitudine può essere molto difficile, spesso infatti è proprio in essa che mettiamo in atto i nostri meccanismi di autocritica, rimuginazione, auto-commiserazione.
Godere di questo momento e viverlo appieno è per molti un traguardo, che può
essere raggiunto solo quando essere soli non è un modo per ritrarsi dal mondo (un comportamento evitante) e quando i nostri meccanismi automatici sono già stati compresi e disinnescati.
Questo può avvenire grazie a una consapevolezza delle emozioni vissute in modo negativo, che proprio quando siamo soli tendono ad affacciarsi.
Solo quando siamo liberi di trovarci, in solitudine, di fronte a noi stessi senza l’impeto di fuggire da quella condizione, allora possiamo finalmente sperimentare la complessità, la profondità, l’intimità, la quiete.

(Per il sottotitolo in Italiano, selezionare la lingua dalle impostazioni del video in basso a destra)

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