Dipendenza affettiva
Amare qualcuno è un sentimento gratificante, naturale e adattivo per la specie.
L’amore è, in tutte le sue forme, un sentimento che ci porta a creare uno spazio nella nostra vita per accogliere l’altro e donargli qualcosa di noi. Quando amiamo siamo felici e sembra che tutto il nostro organismo benefici di questo stato affettivo.
Molti comportamenti motivati dall’amore, infatti, come il rapporto sessuale e l’accudimento, permettono al nostro corpo, tra le altre cose, di produrre un ormone chiamato ossitocina, che sembra giocare un ruolo anti-infiammatorio e cardio-protettivo (Gutkowska, J., & Jankowski, M. (2012) oltre ad avere una funzione di neuromodulazione della trasmissione sinaptica centrale e di mediazione della plasticità neuronale (Mitre, M., Minder, J., Morina, E. X., Chao, M. V., & Froemke, R. C. (2018)
Finchè parliamo di amore, quindi, tutto bene.
Il problema si pone quando, invece di provare un sentimento sano e naturale, restiamo vittime di un meccanismo di dipendenza affettiva che ci porta ad annullare noi stessi e a trovare senso solo nel riferimento ad un’altra persona.
Comunemente, nelle prime fasi dell’innamoramento, gli individui mostrano atteggiamenti simili a quelli dei soggetti dipendenti da droghe, gioco patologico, dipendenza da internet, etc. Uno degli aspetti che accomuna i due fenomeni è di avere un’attenzione focalizzata per l’oggetto del desiderio e un pensiero ossessivo per il raggiungimento dello scopo. Nelle prime fasi dell’innamoramento si pensa al proprio amato in maniera pervasiva, la mente corre a lui anche quando non c’è e non si vede l’ora di rivederlo di nuovo. Questa fase iniziale cambia progressivamente, spesso nelle storie che tendono a durare nel tempo, proprio in virtù della relazione che si crea fra i due innamorati e del cambiamento dei singoli all’interno dello scambio con l’altro.
Nella dipendenza affettiva l’atteggiamento di completa focalizzazione sull’altro continua anche oltre le prime fasi naturali dell’innamoramento. Questo interrompe il processo naturale della scoperta di sé e della persona che amiamo, per diventare meccanismo di gestione dell’angoscia ad uso personale del soggetto dipendente. L’altro amato non è più l’altro per ciò che è ma diventa strumento per regolare il proprio sentirsi. L’altro diventa indispensabile per “leggersi”.
Nella psicologia post-razionalista possiamo inquadrare molte esperienze tipiche delle dipendenze affettive sotto lo spettro della tendenza alla co-percezione (Arciero, G. (2002). Studi e dialoghi sull’identità personale. Torino: Bollati Boringhieri). “Co-percepirsi con l’altro” è quel fenomeno che accade quando, per accedere a me (a come mi sento, a cosa penso…) ho bisogno di un altro a cui riferirmi.
Facciamo un piccolo esempio. Poniamo che io sia a dieta perché voglio perdere qualche chilo di troppo. E poniamo che a pranzo con il mio ragazzo finisca per mangiare tutto il pane che c’è sulla tavola. A quel punto lui mi fa notare, in modo scherzoso, che forse ho un po’ esagerato. In quel momento rispondo semplicemente con un sorrisetto e gli do ragione ma subito dopo mi chiudo nel silenzio e comincio a pensare, pensare, pensare… “è stato proprio cattivo a farmi notare che ho mangiato troppo, non capisce mai quando dovrebbe essere carino con me, non perde mai l’occasione per farmi sentire una persona incapace, forse preferirebbe stare a tavola con una delle nostre amiche magre e sicure di sé…”e così via. Questi pensieri e il modo in cui mi fanno sentire potrebbero portare ad arrabbiarmi con lui successivamente o a rimanere chiusa nel mio silenzio mentre coltivo il mio rancore per lui. L’aspra critica, oltre la semplice frase che lui ha detto, la derivo da ciò che appositamente “metto nella testa di lui” per “leggermi” incapace, brutta, non attraente. Questo certo non non mi aiuterà a portare avanti serenamente la mia dieta, anzi, non farà altro che spostare la responsabilità del mio comportamento e del mio modo di sentirmi su di lui.
Nella dipendenza affettiva questo meccanismo di co-percezione è pervasivo, costante. Finisco per non vedere più né me stesso, le mie difficoltà, le mie scelte, le mie responsabilità, né l’altro, per quello che è, oltre l’effetto che mi fa. Così finisco per sentirmi, in qualche modo, soltanto alla luce di come mi fa sentire l’altro (“mi fa sentire poco considerata, che non valgo nulla, che sono brutta, grassa, incapace).
Questo meccanismo di regolazione di sé attraverso l’altro può avere una storia in ognuno di noi. E può avere dei gradi.
Liberarsi dalla dipendenza, imparando a ri-appropriarsi del proprio modo di sentire e riprendendo su di sé la responsabilità delle proprie scelte, è un percorso che può richiedere un cambiamento sostanziale nella vita di chi, da tempo o da sempre, vive sé stesso solo alla luce di un altro. Ma di sicuro vale la pena provarci.
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