Categoria: Psicologia

IN ME , poesia di Kikuo Takano

In me c’è qualcosa di rotto.

Sono come l’orologio che si ferma

poco dopo averlo caricato,

come il piatto incrinato che non torna

nuovo se anche

lo incolli con cura.

In me c’è qualcosa di schiacciato.

Sono come il tubetto di dentifricio

quando nulla ne esce

se anche lo premi,

come la pallina da ping-pong ammaccata

che non può tenere più in gioco

nemmeno un buon giocatore.

Ci sono oggetti distrutti e schiacciati

dal principio, senza motivo, in me:

l’ombrello che non sta aperto, il violino

fuori uso e i sandali coi cinturini rotti,

il rubinetto intasato, il flauto

sfiatato, la lampada consumata.

Eppure non mi perdo di morale,

l’ira non mi trascina, né mi tormento

come una volta, anzi mi auguro

di potermi riempire

di quelle cose inutili,

restando distrutto e schiacciato,

in questo trovando il mio orgoglio.

PRESTARE ATTENZIONE ALLE PROPRIE EMOZIONI. La regolazione emotiva nella mindfulness

Le emozioni sono una parte essenziale della nostra vita.

Nel Macbeth di Shakespeare, un nobile rimprovera un messaggero pieno di paura, dicendogli “Dai voce al dolore: il dolore che non parla sussurra al cuore oppresso e lo porta a spezzarsi”. Sembra infatti essere una cosa saggia quella di “dar voce” al dolore quando si è alle prese con delle emozioni negative, in modo tale che queste possano avere un impatto più lieve.

Ogni individuo, alle prese con la propria esperienza emotiva, mette in atto delle strategie per regolare lo stato di attivazione che essa comporta in virtù dei propri bisogni e delle convenzioni sociali del contesto in cui è immerso.
Possiamo agire, infatti, sulle nostre emozioni in modo tale da intensificare, negare, o addirittura alterare l’effetto che un certo evento può avere su di noi.

La regolazione emotiva si riferisce ad una serie di strategie che gli individui applicano all’esperienza emotiva e che possono influenzare i vari aspetti dell’emozione, dal suo generarsi al suo mantenimento, alla sua espressione e all’esperienza soggettiva globale che ne deriva.

Ad esempio possiamo agire sulle emozioni scegliendo di evitare situazioni che ci provocano disagio, come andare ad una festa dove non conosciamo nessuno (scelta della situazione) oppure possiamo, di fronte a una difficoltà, provare a pensare agli aspetti positivi di quell’esperienza (re-appraisal cognitivo). Ancora, possiamo decidere di andare comunque alla festa con persone che non conosciamo, anche se sappiamo che ci sentiremo in imbarazzo ma possiamo scegliere di farci accompagnare da un buon amico che ci faccia sentire più al sicuro (modificazione della situazione) oppure possiamo, tornati a casa, evitare i sentimenti d’incapacità personale distraendoci con la televisione (distrazione).

Queste sono alcune strategie che tutti, quotidianamente, utilizziamo per ridurre l’impatto emotivo che alcune situazioni hanno su di noi.

In generale questi processi cognitivi di regolazione hanno lo scopo di allontanare le emozioni negative e produrre uno stato di maggiore piacere.

La mindfulness agisce in modo diverso e si distingue dai processi di regolazione che tendono a una ricerca del piacere e a un allontanamento dalla sofferenza. Essa è un atto intenzionale che ci porta a contatto con ciò che c’è, sia esso piacevole o spiacevole.

La consapevolezza della mindfulness è non-elaborativa, non giudicante e l’atteggiamento è quello della curiosità e dell’accettazione

L’atteggiamento tipico indicato nelle pratiche di mindfulness, nell’ottica della tradizione buddista, di non forzare un cambiamento dell’esperienza in corso ma di accettarla così com’è, ci permette infatti di non mettere in atto atteggiamenti di evitamento cognitivo o comportamentale, come avviene con la scelta e la modificazione della situazione, la distrazione, il reappraisal, etc..

A questo proposito Grecucci e collaboratori in una rassegna del 2015, evidenziano che uno degli elementi fondamentali della mindfulness è quello di regolare l’emotività attraverso un atteggiamento di defusione e de-centramento dall’esperienza.

Secondo Gross, “partecipando a una serie più ampia di esperienze di momento in momento, i partecipanti imparano a ri-percepire il mondo . Il ri- percepire si riferisce alla sviluppata capacità di disimpegnarsi dal dramma della nostra esperienza personale e partecipare a nuove sensazioni e interpretazioni.”

L’unicità delle pratiche di mindfulness, rispetto alle altre strategie di regolazione emotiva sembra essere rappresentata proprio dall’indicazione di riportare l’attenzione alle esperienze sensoriali del corpo, promuovendo l’attivazione di aree cerebrali che rappresentano la condizione fisiologica del corpo e il nostro sentimento di esso (insula e corteccia somatosensoriale).

La maggior parte delle pratiche del protocollo MBSR prevede, infatti, che i soggetti mantengano un’attenzione sostenuta alle sensazioni fisiche della respirazione e del corpo in generale. Ciò permette di favorire, tra le altre cose, una comprensione della natura transitoria dei fenomeni dell’esperienza umana.

L’attenzione è nel qui ed ora, nell’esperienza stessa di essere presenti a sé , accettando ciò che c’è per ciò che è.
L’attenzione sostenuta, richiesta nelle pratiche di mindfulness, è diretta verso il processo dell’esperienza (sensazioni, emozioni, pensieri), piuttosto che verso il suo contenuto narrativo e interpretativo.

Nella mindfulness l’attenzione è rivolta all’interno ma non nella modalità di rielaborazione e ritrattazione dei pensieri, piuttosto essa viene ancorata internamente alla rappresentazione delle componenti viscerali dell’emozione.

Essa, infatti, non si impegna nel cambiare il pensiero e l’interpretazione rispetto allo stimolo emotivo ma si occupa di modificare il modo stesso in cui ci poniamo verso la percezione dell’emozione.

Questa abilità di ancorarsi alla consapevolezza dei propri segnali corporei può avere la funzione di interrompere il flusso automatico di pensieri messi in atto per far fronte alle perturbazioni emotive, promuovendo una strategia di regolazione delle emozioni più sana e adattiva.

“Date voce al dolore”, quindi, ma non restatene ingabbiati, ricordandovi di tornare a prestare attenzione, con gentilezza, al vostro respiro.

 

Bibliografia

Brown KW, Creswell JD, Ryan RM (a cura di) (2015). Handbook of Mindfulness: Theory, Research, and Practice (Inglese). New York: Guilford Press

Chambers R., Gullone E., Allen N.B. (2009). Mindful emotion regulation: An integrative 
review. Clinical Psychology Review, 29, pp. 560–572

Grecucci A., Pappaianni E., Siugzdaite R., Theuninck A., Job R., (2015) Mindful Emotion Regulation: Exploring the Neurocognitive Mechanisms behind Mindfulness. BioMed Research International Article ID 670724, 9 pages

Gross James J. (2015). Handbook of Emotion Regulation. Guilford Publications

Gross, James J. (1998). The emerging field of emotion regulation: An integrative review. Review of General Psychology, Vol 2(3), Sep, 271-299

Hill CL, Updegraff J.A. (2012). Mindfulness and its relationship to emotional regulation. Emotion. Feb;12(1):81-90

Kabat-Zinn J. (1990) Full catastrophe living: Using the wisdom of your body and mind to 
face stress, pain and illness. New York: Delacorte. Trad. it. Vivere momento per momento 
(2013). Milano: Edizioni TEA pratica

Segal Z, Williams J.M., Teasdale JD Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero (2014) Bollati Boringhieri Edizioni

Shakespeare W. Macbeth. Testo originale a fronte. Edizione Feltrinelli; Nov 2008

 

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COME SI SPIEGA LA COSCIENZA?

La scienza degli organismi viventi si occupa da sempre di descrivere e tentare di spiegare quelli che David Chalmers chiama i “problemi facili”, cioé i processi fisici, chimici, biologici che stanno alla base delle nostre sensazioni, emozioni, cognizioni.

Ma c’é una questione che non può essere ridotta in termini oggettivabili e rappresenta il “problema difficile”, che, per essere descritto e spiegato, non può essere derivato dalla correlazione dei dati scientifici in nostro possesso. La coscienza, rappresenta un problema apparentemente inesplicabile per la scienza.

Chalmers, a tal proposito, ha molti punti interrogativi e un paio di “idee folli” che ribaltano la questione..

 

“LE EMOZIONI NON SONO CHIUSE NELLA TESTA”

jump!

 

Come, a partire dalla nostra esperienza, diamo senso alle cose che ci accadono? Cosa sono le emozioni, che danno un significato alla nostra esperienza in ogni momento e come queste si generano e si organizzano al nostro incontro col mondo?

Nel 1884, a dieci anni dalle teorie evoluzionistiche di Darwin, William James, nel suo storico articolo “What is an emotion”, dichiarava che le emozioni non sono altro che l’esperienza di un insieme di cambiamenti corporei che avvengono in risposta ad uno stimolo ambientale.

James poneva l’esempio: mettiamo di essere davanti ad un orso. Ciò che comunemente si dice, è che davanti a una minaccia–ci spaventiamo–e fuggiamo. Secondo lo studioso questo non è corretto e non coglie veramente ciò che accade. Per James, infatti, alla vista dell’orso, non c’é alcuna valutazione sul fatto che abbiamo paura e che quindi dobbiamo scappare per non essere aggrediti. Quello che succede è che IMMEDIATAMENTE fuggiamo.

E mentre le nostre gambe si muovono, il cuore batte, gli occhi cercano una via di fuga, allora ci accorgiamo della paura che abbiamo e cominciamo a pensare in che situazione pericolosa ci siamo cacciati.

Insomma, vediamo l’orso–scappiamo–e abbiamo paura.

James quindi mette al centro del dibattito sull’emozione gli stessi stati corporei che si esprimono in risposta all’evento, affermando che “i cambiamenti corporei seguono immediatamente alla PERCEZIONE dell’evento e il nostro sentire quei cambiamenti in atto, È l’emozione”.

Lo studioso fa un altro esempio per farci capire come il corpo sia indispensabile nell’esperienza emotiva. Se siamo arrabbiati con qualcuno e gli stiamo gridando le nostre ragioni, proviamo per un attimo a immaginare di togliere da questa situazione il nostro tono alto di voce, le contrazioni muscolari del viso, il battito cardiaco accelerato, i gesti tesi delle nostre mani. Cosa rimarrebbe? Si potrebbe dire che siamo ancora arrabbiati?

Negli anni, la teoria di James, grazie ai contributi dei neo-jamesiani e le teorie sulla mente incarnata, è stata ampliata e ritrattata in molti suoi aspetti. Essa però sembra essere comunque influente, soprattutto per il fatto di aver proposto una prospettiva secondo la quale le emozioni sono sempre incarnate e per cui i cambiamenti corporei che si manifestano nelle emozioni possono alterare l’esperienza stessa di un dato evento.

Negli ultimi decenni, nel campo della neurobiologia si è evidenziato il ruolo della componente corporea nell’origine delle emozioni, della coscienza, dell’empatia (Craig, 2009), indagando gli aspetti della corporeità che influiscono sul correlato cerebrale di tali processi. In questo modo si assiste ad un superamento delle classiche dicotomie cognizione/emozione, mente/corpo, proponendo uno studio della mente incarnata (embodied mind) e non ridotta al cervello.

La mente è qui intesa come un agente cognitivo situato, ossia inserito in un contesto non solo fisico ambientale ma anche di relazioni sociali con altri agenti cognitivi. Per la teoria dell’enactivismo di Varela e Maturana, l’individuo, nel suo far esperienza del mondo e nella sua costruzione di senso, é in un costante dialogo tra l’esperienza che emerge dall’avere un corpo e il fatto di essere incarnato in un contesto biologico, psicologico e culturale.

Per Varela la cognizione stessa è da intendersi come un’azione incarnata che deriva sempre il suo significato dall’essere situata in un corpo che fa esperienza di sé, in un contesto specifico che é il mondo in cui é immersa.

Si può quindi affermare che l’esperienza emotiva, è frutto di una coscienza incarnata, che si fonda sulla percezione degli stati fisiologici in corso e attribuisce significato all’esperienza proprio a partire da questi (Craig 2009, Damasio 1999, Critcley 2004).

Cosa può insegnarci questa prospettiva?

Forse proprio il fatto di non dimenticarci mai di avere un corpo e che il nostro sentimento di esso è fondamentale per comprendere e gestire meglio le nostre emozioni e le cose che ci accadono.

 

ATTENZIONE ALLA CYBERCONDRIA: QUANDO INTERNET DIVENTA IL TUO MEDICO

L’accesso libero alla rete internet se, da una parte, permette una più facile diffusione della conoscenza e garantisce la libertà di informazione, dall’altra, soprattutto se usato in maniera approssimativa, può diventare uno strumento pericoloso per alcuni.

È quanto avviene nell’ambito dell’informazione sulla salute fisica (ma anche mentale) ed è il caso di coloro che, già preoccupati per il proprio stato di salute, si dilungano nella ricerca di informazioni su sintomi e malattie.

Il termine cybercondria è stato coniato per la prima volta negli anni novanta. È l’insieme di due parole “cyber” (prefisso che riguarda ogni cosa che rimandi ad internet e al mondo virtuale) e “ipocondria” (termine psichiatrico per indicare una forma accentuata di preoccupazione per il proprio stato di salute, attualmente classificato nel Manuale Statistico Diagnostico delle malattie mentali, DSM-5, come “disturbo d’ansia per le malattie”).

 

 

cybercondria internet

 

Da un recente studio emerge che la cybercondria è una condizione che può svilupparsi molto facilmente; circa 8 americani su 10 hanno dichiarato infatti di cercare su internet le informazioni mediche, evitando anche di consultare un vero e proprio medico (Fergus, 2013, 735). La ricerca libera e senza filtri d’informazioni su internet può facilmente accrescere le ansie di chi cerca delle spiegazioni, senza che questo sia necessariamente una persona affetta da ipocondria.La rete, infatti, a differenza dei libri di medicina, contiene una quantità di informazioni pressoché infinita, grazie alla possibilità di accedere continuamente a nuove pagine e nuovi link che trattano dello stesso argomento.

Figuriamoci quindi se a cercare è qualcuno che ha già una particolare fragilità emotiva e un’accentuata tendenza alla preoccupazione per la malattia. Sappiamo inoltre, che il ranking (classifica) delle pagine che appaiono per ogni termine di ricerca, sale quanto più quelle pagine sono cliccate dagli utenti. Poiché le persone che cercano informazioni sui vari sintomi fisici di malattia sono spesso quelle maggiormente preoccupate per il proprio stato di salute, è facile capire come, alle prime posizioni nella lista dei risultati di ricerca, appariranno informazioni che riguardano condizioni gravi di malattia.

 

cybercondria internet salute

 

Se per esempio cerchiamo su internet i termini “macchia scura sulla pelle”, scopriremo che, tra le prime pagine segnalate dai motori di ricerca, ci sono quelle che trattano di melanoma (tumore maligno) o mastocitosi (accumulo di mastociti, che nella forma più grave può portare a leucemia o a sindrome mielodisplasica). È ovvio che, com’è giusto aspettarsi, tra i primi risultati per questa ricerca compariranno anche diverse pagine che trattano dei nei, dei banali, comunissimi nei.

La questione però è che, quando una persona si approccia alla vastità d’informazioni accessibili su internet, in preda ad una preoccupazione profonda per il proprio stato di salute, ciò da cui sarà colpita, subito e molto profondamente, saranno quelle parole che rimandano a malattie gravissime, incurabili, spaventosamente reali.

Ecco così che il ranking per le malattie gravi sale e che le persone tendenzialmente portate alla preoccupazione per la malattia (del corpo ma anche della mente) trovano pane per i loro denti e finiscono per essere letteralmente “intrappolate nella rete”.

I ricercatori Ryen W. White e Eric Horvitz (2008) della Microsoft Research hanno condotto un’intervista su 515 persone, raccogliendo informazioni sulle loro abitudini di ricerca su internet nell’ambito della salute.

I ricercatori evidenziano una certa tendenza, nei soggetti intervistati, di iniziare la ricerca con dei sintomi anche banali e di finire, attraverso un’escalation di informazioni sempre più specifiche, a ricercare informazioni su condizioni di malattia sempre più gravi.

Lo studio sottolinea inoltre come la relazione tra ricerca di informazioni e preoccupazione per la propria salute sia di tipo ciclico, cioè l’accentuata ansia delle persone, dovuta alla preoccupazione per la malattia, diventa il motore che alimenta il controllo dei sintomi e la richiesta di ulteriori esami di laboratorio e visite mediche (dinamica tipica dell’ipocondria). In questo modo il disagio per la propria condizione di malattia e per i continui controlli medici può influire direttamente, in modo negativo sulla vita di tutti i giorni.

In un altro studio Fergus (2013) rileva che gli individui con un elevato grado di “intolleranza all’incertezza” (che quindi rispondono SI a domande del tipo: “Voglio sempre sapere che cosa il futuro ha in serbo per me”) hanno un livello più elevato di ansia e sono più tendenzialmente inclini a sviluppare un disturbo da cybercondria.

Il consiglio non può essere più semplice: contro ogni tentazione di ricercare su internet informazioni che riguardano la propria salute fisica o psichica, è sempre meglio scegliere un buon dottore e fidarsi solo di lui!

 

  • AA.VV. (2013) 5° Edizione. DSM-5 Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. American Psychiatric Publishing.
  • Ryen White and Eric Horvitz (2008). Cyberchondria: Studies of the Escalation of Medical Concerns in Web Search. Microsoft Research Publications, pp. 1-33.
  • Fergus, T. A. (2013). Cyberchondria and intolerance of uncertainty: Examining when individuals experience health anxiety in response to Internet searches for medical information. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 16, 735-739.

L’ARTE DEL SONNO

Quante sono le ore di sonno sufficienti per stare bene?

Secondo alcuni studi recentemente analizzati per il New Yorker dalla giornalista Maria Konnikova e ripresi da Il Post, sembra che nel giro di un paio di generazioni, le ore medie di sonno notturno siano diminuite di circa un’ora e mezzo per notte.

 

Da una ricerca pubblicata da PNAS (Proceeding of the National Academy of Science) emerge che tra le abitudiniche contribuiscono a peggiorare la sempre più diffusa scarsa “igiene del sonno” c’è l’uso fino a tarda sera dei dispositivi ad emissione di luce blu come smartphone, tablet, pc e tv.

 

Viene dimostrato, infatti, come alcuni recettori del nostro occhio, che reagiscono ai cambiamenti di luce e buio, servano per inviare al sistema nervoso centrale informazioni su come regolare l’orologio interno e quindi il ritmo sonno-veglia.

Sulla base di queste informazioni (luce o buio), il sistema nervoso centrale si prepara a rilasciare melatonina,quell’ormone che favorisce l’addormentamento e che è utile assumere sotto forma di integratore quando a causa del jet-leg si fatica a prendere sonno.

I raggi luminosi dei dispositivi portatili, attraverso i fotorecettori dell’occhio, inducono il sistema nervoso centrale a rimandare il momento di prepararsi al sonno.

La conseguenza è una posticipazione dell’orario di andare a dormire e una riduzione delle ore di sonno per notte.

 

dormire_bene

 

 

Gli studi riportati ci dicono che a differenza dell’insonnia primaria, la quale è un vero e proprio disturbo del sonnoche si manifesta soprattutto con un deficit diurno (sonnolenza), gli effetti della riduzione delle ore di sonno determinata dalle cattive abitudini non permangono a lungo, ma non svaniscono.

In realtà, ciò che accade è un adattamento del nostro corpo,nel giro di pochi giorni, a questo nuovo modo di stare nella propria pelle.
Tuttavia, nonostante la nostra grande capacità adattativa,

il deficit di sonno può avere molte ricadute sulla performance cognitiva e sulla memoria, sul comportamento e sull’intelligenza emotiva e sulla salute in generale a causa del rischio di sviluppare malattie metaboliche.

 

Il trattamento per l’insonnia prevede un attento esame dei comportamenti che possono interferire con il sonno e un approccio psico educazionale sulle pratiche da adottare per avere un sonno sano.

Allo stesso modo l’automonitoraggio della propria igiene del sonno aiuterebbe ciascuno ad incrementare le proprie funzionalità in molti ambiti e a migliorare la qualità della vita.
Si può imparare ad affinare la propria igiene del sonno, mantenendo un riposo regolare, evitando  l’alcool e la caffeina, facendo esercizio fisico regolare ed evitando attività stressanti prima di andare a letto.
Le terapie di rilassamento come la meditazione, la respirazione profonda e il rilassamento muscolare progressivo sono ottimi ausili.

Questi sono tutti trattamenti per l’insonnia che non implicano l’uso di farmaci.

IPERATTIVITÀ E PSICOSTIMOLANTI

Il numero di bambini/ragazzi americani diagnosticati con Disturbo da Deficit di attenzione/iperattività (ADHD) continua a crescere.

 

Leonard Sax, con uno sguardo lucido alle comuni abitudini dei preadolescenti/adolescenti di oggi, descrive la diffusa tendenza di questi a stare svegli fino a tarda notte, incollati allo schermo di un computer o di un telefonino.

 

Spesso la deprivazione di sonno comporta un sovraccarico di stanchezza che i ragazzi si trascinano il giorno dopo, soprattutto a scuola, dove si richiede un elevato sforzo attentivo e una presenza adeguata.

Comportamenti di tipo inattentivo, scarsa concentrazione, comportamenti inadeguati, difficoltà a svolgere i compiti (comportamenti tipici dei bambini con disturbo da deficit di attenzione/iperattività) vengono trattati con farmaci psicostimolanti come Adderall, Concerta, Vyvanse.

Questi, così come il Ritalin, agiscono sui recettori cerebrali della dopamina. L’effetto di “accelerazione” è assicurato e l’attenzione, la concentrazione e l’abilità di esecuzione sono ristabilite. E nemmeno così a caro prezzo grazie alla copertura sanitaria.

 

I bambini/ragazzi che prendono farmaci per disturbo da deficit di attenzione/iperattività crescono di numero e così crescono, anche sulla base dei farmaci prescritti (specifici proprio per l’ADHD), le diagnosi di questo disturbo.

 

Il consiglio di Sax non potrebbe essere più semplice: “Provate innanzitutto a spegnere i cellulari!”.

 

Parole sagge…

FIBROMIALGIA. COSA C’ENTRANO LE EMOZIONI?

La ragazza si siede e comincia a raccontare…

 

“È una lunga storia… mi ha mandato qui il mio medico, un endocrinologo che mi segue ormai da dieci anni. Secondo lui, una terapia con uno psicologo può aiutarmi a stare un po’ meglio, chissà…

Insomma, sono quasi vent’anni che soffro di questa cosa. Ho cominciato prima ad avere vertigini, ansia, strane sensazioni di torpore alle gambe e alle braccia. Negli anni si sono aggiunti dolori forti e diffusi in quasi tutto il corpo, stanchezza cronica, mal di testa, tachicardia, disturbi intestinali. Da tanto ho difficoltà ad addormentarmi la sera e mi sveglio sempre molto presto la mattina, pur non dovendo andare a lavorare.

Insomma…sono proprio un disastro…

Che dice, dottoressa, si può fare qualcosa?”

 

Il quadro che presenta la ragazza è di sicuro complesso. I sintomi che porta hanno una lunga storia e, apparentemente, potrebbero sembrare slegati fra loro. Ma lo sono veramente?

Che ci fa una ragazza che ha dolori e disturbi somatici dallo psicologo e qual è il motivo per cui il suo medico crede che una terapia possa esserle utile?

Cerchiamo di farci un po’ di chiarezza…cominciamo dall’inizio.

 

Dolori in alcuni punti specifici del corpo, stanchezza, affaticabilità, difficoltá a riposare bene, mal di testa ricorrenti, ipersensibilità agli stimoli dolorosi, disturbi gastro-intestinali. Questi sono solo alcuni dei sintomi caratteristici di una malattia che si chiama FIBROMIALGIA.

 

Tra gli altri sintomi, che si manifestano anche non contemporaneamente, possono comparire:

  • Tachicardia
  • Acufeni
  • Alterazioni dell’equilibrio (sbandamenti, vertigini)
  • Dismenorrea
  • Disturbi della sensibilità (formicolio o torpore)
  • Ansia e depressione
  • Rigidità generalizzata o localizzata
  • Crampi
  • Difficoltà a concentrarsi, “testa confusa”
  • Sensibilità chimica multipla, allergie

 

La fibromialgia è una malattia piuttosto diffusa, specialmente nella popolazione femminile. In Italia colpisce circa 1,5 – 2 milioni di persone.

 

COS’È E QUALI SONO LE CAUSE?

È una malattia reumatica che colpisce i muscoli causando un aumento di tensione muscolare. I punti prevalentemente interessati dal dolore sono: la colonna vertebrale, le spalle, il cingolo pelvico, braccia, polsi, cosce

 

Fa parte dei Disturbi del sistema muscoloscheletrico e del tessuto connettivo ed è considerata una sindrome somatica funzionale.

Ma cosa vuol dire sindrome funzionale? Si usa questo termine per descrivere quei disturbi i cui sintomi sono il risultato di un’alterata interazione tra i diversi sistemi del nostro organismo (sistema nervoso centrale, periferico, neurovegetativo, immunitario, endocrino).

 

Nel caso della fibromialgia, infatti, si pensa che la genesi sia multifattoriale (genetica, ambientale, emotiva) e che alla base della malattia vi sia un processo di “sensibilizzazione centrale”.

Secondo questa ipotesi, l’abbassamento della soglia del dolore, una delle caratteristiche principali della malattia oltre all’iperalgesia, è dovuta ad una aumentata reattivitá delle cellule cerebrali e spinali deputate alla percezione del dolore.

Mediante questo processo di sensibilizzazione anche uno stimolo di lieve entità viene avvertito come un dolore.

 

Oltre alla componente genetica, i fattori che predispongono alla malattia sono riferibili ad infiammazioni, infezioni, traumi fisici, disturbi del sonno. Questi ultimi se da un lato sono un sintomo stesso della malattia, dall’altro aumentano il senso di stanchezza cronica.

La fibromialgia può avere nella vita di tutti i giorni un forte impatto emotivo con sentimenti di preoccupazione, tristezza profonda, isolamento, rabbia e disperazione.

 

fibromialgia

 

CHE RUOLO GIOCANO I FATTORI PSICOLOGICI?

Gli aspetti emotivi nella fibromialgia assumono una rilevanza notevole non solo dal punto di vista degli stati psicologici ma soprattutto per la sovrapposizione di questi con gli stessi meccanismi biologici della malattia.

 

In alcuni individui vulnerabili geneticamente, infatti, condizioni di stress o sofferenza emotiva protratta a lungo e condizioni di dolore cronico si intrecciano e si influenzano reciprocamente generando  un’alterata risposta dell’organismo a stimoli minacciosi, stressogeni o dolorosi.

 

Un esempio di come le emozioni si manifestino direttamente nel corpo è dato dallo stress.

Ricerche dimostrano che le persone con fibromialgia hanno una tendenza maggiore rispetto agli altri di vivere in modo amplificato situazioni di stress psico-fisico, facendo fronte ad esse con un’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, principale effettore della risposta individuale di stress.

 

Ciò porterebbe a un’alterata produzione di cortisolo (comunemente chiamato “ormone dello stress”) che a sua volta determina un aumento nel rilascio di citochine pro- infiammatorie.

Queste ultime entrano in gioco sia nel potenziare i meccanismi depressogeni, sia quelli relativi alla percezione del dolore.

 

Allo stesso modo alcuni neurotrasmettitori, come la serotonina, agiscono non solo a livello cerebrale modulando ansia e depressione ma intervengono anche nel funzionamento di regolazione dei sistemi discendenti del dolore.

 

L’emozione quindi genera dolore (e viceversa) in maniera diretta, immediata e il processo di sensibilizzazione centrale in alcune

porzioni neuronali può essere alla base di entrambi gli aspetti della sindrome fibromialgica,  quello somatico e quello emotivo.

 

COSA FARE?

La prima cosa da fare è affidarsi a uno specialista che fornisca una diagnosi. Il reumatologo è il medico più adatto a capire se si tratta realmente di fibromialgia e che può dare le informazioni utili per le cure disponibili.

Di solito la gestione della malattia richiede cure integrate con farmaci, attivitá fisica ad impatto lieve (yoga, nuoto, camminata), tecniche di rilassamento muscolare.

 

La psicoterapia si pone non come alternativa alle cure mediche ma come sostegno delle stesse. Al fine di non rendere vani i risultati raggiunti dal trattamento medico è spesso necessario individuare e risolvere le difficoltà emotive vissute dalla persona che, come si diceva, finiscono per manifestarsi direttamente attraverso i sintomi fisici.

La psicoterapia deve essere mirata a gestire gli stati ansiosi, a ridurre i fattori di stress e a raggiungere una maggiore consapevolezza di quali sono gli aspetti emotivi che possono mantenere o aggravare le condizioni della malattia.

 

Lo psicologo, in questi casi, collabora con il medico curante agendo parallelamente alle terapie mediche e fornendo anche un supporto emotivo nei momenti di difficoltà e scoraggiamento.

Inoltre può fornire un parere e intervenire sull’eventuale presenza di disturbi psicologici che possono influire sulla percezione del dolore o sulla tendenza a sviluppare sintomi fisici in relazione a difficoltà emotive (disturbo da sintomi somatici)

 

Insomma si, se le cure vengono integrate e si collabora in sincronia, qualcosa si può fare.

 

  • International classification of diseases, ICD 10 – Version: 2015 http://apps.who.int/classifications/icd10/browse/2015/en
  • A. Hawkins, “Fibromyalgia: A Clinical Update”, The Journal of the American Osteopathic Asssociation, September 1, 2013 vol. 113 no. 9 680-689 http://www.jaoa.osteopathic.org/content/113/9/680.full
  • Susanne Becker and Petra Schweinhardt, “Dysfunctional Neurotransmitter Systems in Fibromyalgia, Their Role in Central Stress Circuitry and Pharmacological Actions on These Systems”, Pain Research and Treatment, 2012 http://www.hindawi.com/journals/prt/2012/741746/
  • Diagnostic an statistical manual of mental disorders, Fifth edition, DSM V
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